La Corte Costituzionale, con sentenza n. 194 del 26.09.2018 (depositata in data 8.11.2018) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015, sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. Decreto Dignità), nella parte in cui determina l’indennità risarcitoria in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Ad avviso dei giudici della Consulta, infatti, tale disposizione contrasta con il principio di eguaglianza, in quanto produce l’effetto di omologare, in maniera del tutto ingiustificata, situazioni diverse, laddove, al contrario, è un dato di comune esperienza che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori.
L’anzianità nel lavoro, dunque, costituisce certamente un fattore di valutazione rilevante ma è soltanto uno dei tanti che il giudice deve tenere in considerazione per valutare la peculiarità di ogni singolo licenziamento. Il tutto, nell’ambito dei confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto ed entro una soglia minima e una massima (6 – 36 mensilità).
Tali fattori vanno rinvenuti nell’art. 8 della L. 604/1966 (come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990), che, come noto, lascia al giudice la determinazione dell’indennità risarcitoria, sia pure all’interno di un minimo e un massimo di mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, valutando i seguenti fattori: i) numero dei dipendenti occupati; ii) dimensioni dell’impresa; iii) anzianità di servizio del prestatore di lavoro; iv) comportamento e condizioni delle parti.
Ciò in quanto, in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio.
L’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 contrasta anche con il principio di ragionevolezza sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
Ed invero, l’aver prestabilito la misura dell’indennità in maniera rigida e non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio comporta l’impossibilità di incrementare detta indennità e la connota come una liquidazione legale forfetizzata, minando la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro.
Con tale pronuncia, dunque, è stata ampliata la discrezionalità del giudice nel determinare l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo, potendosi quantificare detta indennità in misura superiore a quella prevista applicando la sola anzianità di servizio, previa valutazione di ulteriori parametri e mantenendosi, in ogni caso, nell’intervallo compreso tra sei e trentasei mensilità.